Proposta per la riorganizzazione dell'assistenza al malato terminale
A Caroselli
Medico Generale - Rieti

 

Le cure palliative quale nuova disciplina scientifica autonoma sono consone al ruolo del Medico Generale del terzo millennio o rappresentano l’ultima frontiera oltre la quale subiremo il grande e irreversibile scippo della nostra identità professionale?

"obiettivo della scienza medica non è aprire una porta verso la saggezza infinita, ma tentare di compensare un infinito errore" (Bertolt Brecht)

Oggi la nostra categoria è indubitabilmente avvitata sul dilemma se "centralità" del ruolo nel S.S.N. non significhi piuttosto assunzione implicita di ruolo di target ultimo della lacerazione tra domanda di salute incontrollata e offerta sempre più limitata strangolata, quest’ultima, da una razionalizzazione esasperata delle risorse o, peggio, da criteri economicistici che ubbidiscono solo a logiche ragionieristiche.

La cultura della palliazione rappresenta oggi una porta aperta al futuro del ruolo professionale che ci appartiene per i seguenti motivi:
1) la disinvoltura per i Medici Generali nel management delle patologie in cronico
2) la consuetudine al rapporto umano della nostra figura professionale
3) la maggiore resistenza, rispetto ad altre figure professionali mediche, alla frustrazione del sentimento di "onnipotenza terapeutica" che la condizione di terminalità evoca ogni giorno nell’operatore
4) La naturalità con la quale il Medico Generale vive la soddisfazione dei piccoli passi e successi terapeutici e, inoltre, la complicità disinvolta con il Paziente nel "patteggiamento terapeutico"
5) le cure palliative sono per definizione trattamenti espletati a basso costo, con provvedimenti richiedenti bassa tecnologia, ma viceversa alta umanizzazione e alto impatto emotivo
6) la progressione nei paesi occidentali dell’incidenza di patologie croniche-degenerative legate all’invecchiamento (ricordo che i criteri palliativistici vengono ormai interpretati in senso estensivo includendo ogni malato incurabile non necessariamente canceroso al di sotto di determinati indici di vitalità)
7) la marea montante delle tematiche eutanasiche e le conseguenti lacerazioni morali e legali conseguenti cui il Medico di Famiglia può fare da baluardo facendo leva sulla "confidenza" e sull’alleanza umana con il proprio Paziente che ne permettono una adeguata sdrammatizzazione.

Non dobbiamo perciò esitare nel misurarci su questo terreno che ci è familiare con Oncologi, Anestesisti, Chirurghi o altri Palliatori spesso improvvisati, e per mia esperienza, nella maggior parte dei casi, impreparati e alieni a qualsiasi nozione del patrimonio scientifico della palliazione (che ricordo vive come disciplina autonoma in vari paesi e nasce dal know-how infermieristico anglosassone).
Non dobbiamo provare disagio nemmeno di fronte ad organizzazioni private rampanti che invadono "il mercato" con prezzari o con un finto volontariato non Profit.
Rammento che vivono ed operano sul territorio nazionale vari NODO (Nuclei Operativi Domiciliari Oncologici) costituiti da Medici di Famiglia ottimamente funzionanti e che molti colleghi sono stati addestrati alle cure palliative con training formativi di alto livello acquisendo specifiche competenze.

Il terreno di confronto, seppur familiare, diventa paludoso a causa dei seguenti indicatori negativi che contrastano con i positivi sopra riportati:
1) il continuo aumento del carico lavorativo con funzioni sempre più svariate, diversificate, burocratizzate e rispondenti alle sole necessità istituzionali di sgravare sul Medico Generale oneri di politica sociale
2) l’incapacità intrinseca dei Medici di Famiglia (che sta assumendo ormai i connotati di una malattia cronica) di collaborare o meglio ancora, come lo specifico richiederebbe, sviluppare una "mentalità imprenditoriale" di traduzione budgettaria delle molteplici esigenze che questi Pazienti e le loro famiglie presentano (vedi case-manager)
3) l’incapacità di abituarsi ad una visione multidimensionale del Paziente cronico soprattutto in condizioni di terminalità
4) una sorta di miopia categoriale che penalizza progetti di ampie dimensioni e dai ritorni economici dai profili mediati, privilegiando sempre le scorciatoie di guadagno immediato.

Per evitare che un terreno di confronto, seppur paludoso, diventi terra di nessuno, dove è permesso qualsiasi tipo di razzia, vanno formulate ragionevoli ipotesi di lavoro.

Innanzitutto:
una progettualità di sistemi organizzati nel management di stati di terminalità deve rispondere a requisiti che devono sapersi coniugare, in modo uniforme su tutto il territorio nazionale.

In secondo luogo:
i criteri di applicabilità della struttura organizzativa devono rispondere qualitativamente a standard adeguati ad un Paese con una organizzazione dei servizi sanitari di livello europeo.

L’esperienza sul campo delle Unità di Cure Palliative mi porta a ritenere questo modello attuativo il più snello, flessibile ed adattabile alle molteplici realtà locali.
Al centro dell’organizzazione dell’unità operativa è presente ovviamente il Paziente con il suo medico curante.
La centralità però a mio avviso va intesa nel senso di target del soddisfacimento delle molteplici esigenze esplicitate dal Paziente e dai Familiari e, in definitiva, organizzate proceduralmente dal Curante.
Ma, discostandosi dalla modellistica attuativa corrente, mi permetto di azzardare un modello di organizzazione decentrato.
Elaborando il modello algoritmico operativo dell’Associazione Nelson Frigatti (vedi SIMG - Aprile ’96 a tutt’oggi, a mio parere, il più razionale e organizzato per la realtà sanitaria territoriale, di cui sia a conoscenza), per poter raggiungere l’area-obiettivo è necessario a mio parere modificare la flow-chart nel seguente modo.
L’unità di cure palliative ha la valenza dimensionale distrettuale ed è su queste misure organizzative che va ritagliato lo specifico profilo operativo.
"Conditio sine qua non" per il buon funzionamento del progetto è che almeno la metà dei Medici di Famiglia convenzionati del Distretto, aderisca al progetto-obiettivo dell’assistenza al malato terminale, impegnandosi in prima persona nell’allestimento e nel buon funzionamento dell’UCP.
In tale prospetto di algoritmio l’unità di cure palliative vede al centro della responsabilità organizzativa una figura sanitaria che deve essere medica, particolarmente motivata allo specifico lavoro, che ha assunto competenza professionale in merito alle metodiche multidisciplinari palliative, dotata di ottime qualità manageriali e per tale scopo adeguatamente formata, capace inoltre nel costruire un adeguato network collaborativo con i medici di famiglia del distretto.

Il profilo professionale del "responsabile dell’Unità di cure palliative" non deve essere istituzionale ma "terzo" rispettivamente all’area della dipendenza ospedaliera e della medicina territoriale.
Non può essere altresì un Medico di Famiglia del Distretto per gli ovvi motivi di mancanza di tempo, di rivalità con gli altri colleghi, di tentazioni di accaparramenti di clientela.
Ritengo che tale compito possa essere assolto (espletato il dovuto training) da una figura di Medico Generale che abbia svolto il necessario corso di formazione biennale, convenzionato con la Medicina Generale per un solo progetto-obiettivo specifico triennale, al termine del quale potrà scegliere di rinnovare o potrà accedere all’acquisizione di assistibili in altro Distretto.

Il mansionario di tale figura professionale prevederà:
- l’organizzazione logistica dell’unità operativa valutando quanti P. Terminali possono accedere in quel momento alle cure palliative domiciliari, provvedendo ad organizzare compiutamente le richieste dei Medici di Famiglia
- curare i rapporti con la farmacia (anche ospedaliera)
- curare i rapporti istituzionali con il servizio di medicina di base
- valutare il carico di lavoro dell’infermiere territoriale disegnando insieme al curante lo specifico intervento del caso
- valutare il carico di lavoro e l’organizzazione di accesso degli specialisti e delle altre figure professionali (terapista, psicologo, assistente sociale, accompagnatore, addetto all’intervento socio-assistenziale)
- organizzare gli aspetti logistici per eventuali ricoveri di un giorno
- interfacciarsi, per lo specifico problema dei P. Terminali tra il Medico Generale e l’organizzazione distrettuale
- organizzare i rapporti con la continuità assistenziale o dove essa sia garantita dai Medici Generali, elaborare il calendario delle reperibilità
- integrare in accordo con gli altri colleghi eventuali carenze assistenziali con accessi diretti pagati con la stessa incentivazione degli accessi domiciliari
- tenere l’inventario degli ausili terapeutici destinati alle finalità terapeutiche dell’UCP.

Al Medico di Famiglia, deve essere concesso l’accesso libero, con conseguente emolumento, ogni qualvolta il Paziente abbia bisogno del suo Curante e lo richieda. Il Medico dovrà motivare ogni singolo accesso in diaria.
Il Medico Generale (nello specifico del P. Terminale) in ordine a criteri di efficienza ed efficacia delle cure, deve farsi carico della continuità assistenziale supportato dagli altri colleghi aderenti al progetto-obiettivo, limitatamente al Paziente critico e con eventuale filtro telefonico (recapito cellulare al responsabile dell’Unità di cure palliative?).
Non possono accedere al progetto-obiettivo delle cure palliative i Medici Generali che non hanno svolto un adeguato training formativo (vedi allegati in appendice al presente lavoro) e che non abbiano mostrato la volontà di collaborazione con gli altri Colleghi del territorio. A tale scopo la Azienda Asl accrediterà con i criteri definiti congiuntamente dall’Organizzazione Sindacale e dalla Società Scientifica, la specifica competenza professionale raggiunta in merito alle cure palliative e al management budgettario.
L’unità di cure palliative sarà anche una unità "imprenditoriale" nel senso più costruttivo del termine. Infatti non è difficile prevedere la spesa pubblica per ogni Paziente Terminale.
Secondo gli studi prospettici effettuati la sopravvivenza media di tutti i Pazienti Terminali, non distinti per patologia, è di circa 90 gg di cui, al momento, circa 30 passati in condizioni di ospedalizzazione.
Considerando la sola spesa alberghiera media di £ 500.000 per ogni giorno di degenza e sapendo dagli studi di economia sanitaria che l’ADI comprensiva della prestazione del Medico Generale e dell’Infermiere territoriale è di circa £ 165.000 giornaliere, è ragionevole e rispondente a criteri di risparmio razionale di spesa, pensare ad un investimento per ogni Paziente di £ 250.000 al giorno comprendenti: la quota capitaria di base del Responsabile dell’UCP, gli accessi del Medico Generale, le consulenze specialistiche, accertamenti clinici, piccola interventistica palliativa ed escludendo gli aspetti prettamente assistenziali (pasti caldi, toilette ecc.) ed ausili vari (vedi anche le esperienze di country hospital per i Pazienti in ADI con riacutizzazioni).
Quanto rimane del budget di ogni Paziente viene capitalizzato dall’UCP e può essere reinvestito nell’assistenza agli altri Malati.
Il capitale economico è vincolato solo al progetto finalizzato e non è previsto alcun storno di spesa.

Il Medico funzionario del Distretto collabora:
- assolvendo le funzioni ispettive e di vigilanza;
- autorizzando la spesa e gestendo concretamente il budget quale mandatario del Direttore Generale;
- organizzando l’assessment generale dei servizi specialistici, della diagnostica strumentale e laboratoristica, degli aspetti relativi alla velocizzazione burocratica (pratiche di accompagnamento, autorizzazioni ausili, verifiche ecc.);
- armonizzando la disponibilità delle altre figure professionali coinvolte (assistente sociale, amministrativi, accompagnatori, servizi di assistenza comunali, privati convenzionati ecc.).

Ritengo che questo modello organizzativo specifico possa rappresentare una base di proposta "mutatis mutandis", della nuova convenzione nazionale il cui rinnovo è incipiente.
Non nascondo che il confronto con numerosi colleghi sulla fattibilità di tale progetto ha lasciato molti di questi perplessi. Mi ha sorpreso peraltro l’entusiasmo mostrato ad accogliere un "nuovo" che impone coraggio professionale ad essere interiorizzato ed elaborato.

Concludo affermando che l’avvitamento socio-sanitario degli ultimi anni nel quale siamo stati costretti si risolve sollecitando i dirigenti e i quadri sindacali ad una dialettica professionale più spinta e motivata a trovare, anche con percorsi azzardati, nuovi modelli di attuazione dei vari aspetti della pratica professionale, non dimenticando mai di intercettare le istanze della base e traducendoli in proposte operative.
Viceversa il rincorrere affannosamente le aspettative degli organi Istituzionali e/o le attese esagerate-esasperate di salute degli Utenti-Pazienti (Di Bella Docet!) ci porterà sempre di più ad un inaridimento del nostro mansionario specifico fino all’estremo esasperato (forse non molto lontano) della residualità della nostra figura professionale.
È forse ciò che fuori dalle esplicitazioni "di maniera" la parte pubblica vuole?
Desiderio politico sottinteso di far scomparire l’ultimo baluardo serio di una assistenza pubblica attenta veramente alla salute del Cittadino?

Lascio a tutti voi tirare le dovute conclusioni.