Il
presente articolo apparso su JAMA del 20 maggio 1998 viene pubblicato in versione
integrale sulla nostra rivista con lassenso del suo estensore prof. E.D. Pellegrino
membro del JAMA Editorial Board.
Larticolo viene pubblicato con il permesso di ESI Stampa Medica Excerpta Medica del
Gruppo Reed Elsevier, Editore Jama Italia.
"In considerazione dello scopo educativo delliniziativa" citiamo
testualmente "per tale autorizzazione non viene richiesto alcun royalty fee."
Un grazie particolare per tutto questo va alla dott.a Stefania Morandi Editorial Manager
di Jama Italia che oltre ad essersi adoperata per farci ottenere in tempi rapidissimi lautorizzazione
alla pubblicazione da parte dellEditore americano ci ha concesso, grazie alla sua
sensibilità, lautorizzazione alla pubblicazione gratuita che era di sua specifica
competenza. A Lei vanno i nostri ringraziamenti e la nostra stima.
La terapia
palliativa
La cura globale coordinata e finalizzata a fornire un sollievo dal dolore e dalla
sofferenza nei malati terminali o incurabili è sempre stata una responsabilità morale
del medico, indipendentemente dalla specialità praticata. Per molte ragioni questo
imperativo morale è diventato oggi più importante che mai: i medici spesso controllano
il dolore in modo inadeguato e lopinione pubblica sta diventando più tollerante per
quanto riguarda il problema del suicidio assistito, di fronte a pazienti che presentano un
dolore intollerabile. La Corte Suprema degli Stati Uniti, nel negare il diritto
costituzionale al suicidio assistito, ha sentenziato in modo inequivocabile sullimportanza
di fornire un controllo adeguato della sofferenza e la medicina palliativa è diventata
così a buon diritto una specifica area di competenza.
Questi sviluppi suggeriscono una revisione di alcuni problemi centrali delle cure
palliative. Essi riguardano tutti i medici che curano i pazienti, senza tenere conto del
motivo che causa la sofferenza e senza riguardo al fatto che essi siano o meno specialisti
in terapia palliativa.
Alleviare dolore e
sofferenza
Il fatto che siano disponibili moderni
metodi per il controllo del dolore, accessibili ed efficaci rende moralmente obbligatorio
che ogni medico sia ben informato sulluso dei farmaci analagesici. Non controllare
il dolore in modo adeguato equivale, sia moralmente che legalmente, ad una inadeguata
condotta professionale (malpractice). Nonostante questo, a molti medici manca la
dovuta conoscenza in questo campo o pur avendola essi usano gli analgesici con troppa
parsimonia. Alcune paure riguardano il problema di rendere tossicodipendenti i pazienti,
altre invece la responsabilità etica della morte qualora essa dovesse avvenire come
risultato di una depressione respiratoria.
Queste paure non sono giustificate né da un punto di vista etico né di fatto. Per
esempio, per quanto riguarda laspetto clinico si sa che i pazienti con dolore severo
che ricevono notevoli dosi di oppiacei soffrono raramente, per non dire mai, di
depressione respiratoria o di dipendenza (addiction), se le dosi somministrate
sono prescritte in modo adeguato. Perfino la dipendenza, qualora dovesse insorgere in un
paziente terminale, sarebbe un piccolo prezzo da pagare per alleviare il dolore. Un
approccio più sfumato al controllo del dolore è giustificato invece nei pazienti cronici
con malattia non terminale.
Dal punto di vista etico, dosaggi di analgesici sufficienti a controllare il dolore, che
come effetto non intenzionale affrettano la morte, sono ammissibili se viene osservata la
"regola del doppio effetto" (rule of double effect). Nonostante questa
sia stata contestata, rimane importante se usata in modo corretto. Secondo tale regola unazione
che ha due effetti, uno buono e uno cattivo, è ammissibile se sono soddisfatte le
seguenti cinque condizioni:
1. lazione in se stessa è buona o almeno moralmente neutra (es. dare della morfina
per sedare il dolore);
2. si intende procurare solo leffetto positivo (es. sedare il dolore), non quello
negativo (es. uccidere il paziente);
3. leffetto positivo non si ottiene per mezzo di quello negativo (es. il controllo
del dolore non dipende dal fatto di affrettare la morte);
4. non esiste una via alternativa per ottenere un risultato positivo (controllare il
dolore);
5. cè una ragione proporzionalmente grave per correre il rischio (es. controllare
un dolore insopportabile).
Chiaramente, per giustificare luso di
questa regola il paziente dovrebbe essere informato circa i rischi e dare un consenso che
sia valido.
Le paure dei medici per le conseguenze legali derivanti dal loro comportamento dovrebbero
essere ridimensionate. Nel decretare il diniego al diritto costituzionale al suicidio, con
lassistenza di un medico, la Suprema Corte di Giustizia ha affermato con forza lobbligo
per il professionista di fornire un controllo adeguato della sintomatologia dolorosa anche
se questo dovesse involontariamente accelerare la morte. Il loro ragionamento risulta
essere analogo a quello usato nella "regola del doppio effetto", sebbene essi
non si riferiscano esplicitamente a questo. Infatti, lasserzione sullobbligo
di controllare il dolore e la sofferenza è stata così inequivocabile da essere stata
interpretata come un presunto "diritto costituzionale" alle cure palliative.
Può essere invece problematico valutare se questo caso possa giustificare o giustifichi
di fatto un alleggerimento delle regole federali che riguardano luso dei narcotici.
Quello che risulta chiaro è che cè unautorizzazione etica e legale alluso
di qualsiasi dose di narcotici si renda necessaria, fino al punto in cui la morte non è
indotta in modo diretto.
Se le dosi di oppiacei per controllare il dolore sono così grandi da determinare una
profonda sedazione, anche questo sarebbe consentito, se la sofferenza non potesse venire
eliminata in nessun altro modo. Questo non è, come sostiene un commentatore, uguale
"alleutanasia lenta" ("slow euthanasia"), dal momento
che lo scopo del trattamento non è la morte del paziente. Lobiettivo della
sedazione profonda è il controllo del dolore e della sofferenza, non quello di far sì
che il paziente rifiuti cibo e bevande, causandone quindi la morte. Affrettare la morte
per mezzo della sedazione terminale, violerebbe la regola del doppio effetto, dal momento
che leffetto buono (controllo del dolore) sarebbe ottenuto accelerando
deliberatamente la morte.
Autonomia e consenso
Come per qualsiasi programma di
trattamento, il consenso al trattamento palliativo deve essere ottenuto da pazienti in
grado di esprimere le loro decisioni e non può essere dato per scontato. Si richiede uninformazione
piena e completa, in modo che il paziente si renda conto che egli o ella saranno curati da
un gruppo di lavoro multidisciplinare di medici specialisti, infermieri, assistenti
sociali, religiosi, terapisti della riabilitazione, specialisti del dolore, psicologi e
psichiatri.
Gli aspetti psicosociali della sofferenza richiedono unindagine della vita privata
del paziente, dei suoi rapporti interpersonali, e delle sue credenze religiose. Non tutti
i pazienti possono aver piacere di sottoporsi ad unindagine così allargata sulle
cause della loro sofferenza. Essi possono desiderare solo un ottimo controllo del dolore e
questo sarebbe comunque un loro diritto.
I pazienti che ricevono una terapia
palliativa sono particolarmente vulnerabili e suscettibili alla suggestione di trattamenti
non ortodossi. Molti americani già scelgono quella che viene chiamata la "medicina
alternativa" a fianco della terapia convenzionale. Essi si rivolgono a questo tipo di
trattamenti in modo più frequente quando la terapia tradizionale fallisce. Questo è
chiaramente il caso dei pazienti incurabili. Se questi trattamenti non sono di per sé
dannosi e se non compromettono lefficacia delle cure palliative, non sembra esservi
nessuna pressante ragione etica per negare al paziente questo diritto. I medici che
ritengono "non etici" questi trattamenti devono ovviamente essere liberi di non
parteciparvi. Essi dovrebbero però spiegare al paziente e ai suoi familiari perché non
intendono usare questi metodi con rispetto e cortesia. Se non è possibile giungere ad un
accordo, il paziente può cambiare medico o il medico può rispettosamente ritirarsi non
appena un altro medico si dichiara disponibile ad intraprendere la cura.
Anche per quanto riguarda largomento dellautonomia
del paziente nasce il problema di dire la verità. Presumibilmente i pazienti sono consci
della loro limitata prognosi di vita quando entrano in un programma di terapia palliativa.
Una comprensione incompleta o parziale del problema, la negazione della limitatezza della
cura o il volere che non sia loro ricordata la morte imminente, porta i pazienti a
desiderare qualcosa di meno dellintera verità. Ci sono, in certe culture, motivi
che possono suggerire di discutere con la famiglia e non con il paziente. Per molte
culture lautonomia non è il valore centrale, come lo è invece nelletica
anglo-americana. Un chiaro compromesso con i costumi e le abitudini del paziente e della
sua famiglia è preferibile ad uninsistenza esageratamente zelante che porti a
gestire tutti i pazienti in un solo modo. Linganno non è daltra parte
ammissibile. A domande dirette si deve rispondere in modo diretto. La decisione di quanta
verità vada rivelata, quanto dettagliatamente e come scegliere il momento giusto rimane
una questione di altissima sensibilità, per la quale non esiste alcuna formula generale
adeguata. In riferimento a questo cè lobbligo di usare con cautela termini
come "malato terminale". Le difficoltà nelluso di questa terminologia
sono state ribadite di recente. Tuttavia linformazione sullaspettativa di
vita, anche quando la prognosi a breve termine è buona, è essenziale se la decisione da
prendere non capita nel bel mezzo di una crisi o durante un rapido declino delle
condizioni del paziente. Dire la verità, informare sulla prognosi a breve termine e sullaspettativa
di vita sono tre problemi strettamente collegati nella cura di qualsiasi paziente in cui
la morte è prevedibile, ma non necessariamente imminente.
Etica di gruppo
La terapia palliativa è per necessità
una cura gestita in gruppo, dal momento che nessun singolo professionista potrebbe forse
far fronte da solo a tutte le necessità di un paziente terminale. Questa situazione
introduce problemi etici speciali collegati allattività del gruppo di lavoro.
La questione della responsabilità è
fondamentale. A prima vista ciascun membro delléquipe può essere responsabile
soltanto del proprio ruolo nel gruppo. Tuttavia i membri del gruppo non possono evitare la
responsabilità per decisioni e azioni del gruppo alle quali partecipano spontaneamente e
in modo cooperativo. Cè poi il problema di chi ha il comando del gruppo e quello di
definire fino a che punto arriva questa autorità. Idealmente il comando dovrebbe essere
affidato alla figura più vicina ai bisogni predominanti del paziente. Questo ruolo potrà
quindi ruotare tra i membri delléquipe o essere affidata a quello che svolge
funzioni di segreteria, senza però che questi abbia lautorità definitiva. I medici
non possono arrogarsi lautorità decisionale su altri membri del gruppo per
questioni di etica. Ciascun membro del gruppo è responsabile del proprio comportamento
morale. Ne deriva inevitabilmente, acconsentendo a questo, che il medico che scrive un
ordine, non può evitarne la complicità morale, attribuendo la propria azione alla
"volontà del gruppo". Quando i membri del gruppo sono in disaccordo, una
commissione etica può risultare utile per giungere a definire un programma di intervento
che sia moralmente difendibile. Se alla fine questo non è possibile, il paziente (o il
suo tutore) dovranno decidere se continuare o meno il rapporto instaurato con il gruppo di
lavoro. Nella complessità delle dinamiche tra i diversi membri delléquipe la
responsabilità di una decisione può essere persa di vista. Alcuni possono evitare di
dissentire per non offendere i colleghi, altri possono infatuarsi con la cosiddetta
"saggezza di gruppo" ("team wisdom") a danno della saggezza
del paziente per quanto riguarda la sua specifica malattia. Altri ancora possono essere
più preoccupati dellangoscia di chi si occupa del malato, piuttosto che di quella
del paziente stesso. Un gruppo può sviluppare unautoconvinzione su quello che è
giusto fare e dare così unautogiustificazione alle proprie decisioni,
infantilizzando in questo modo il paziente che esprime le proprie scelte o decisioni. Il
gruppo di lavoro in terapia palliativa deve riconoscere la centralità del paziente, pur
mantenendo la propria integrità personale e professionale.
Evitare lideologia
Infine, la terapia palliativa è così
moralmente ammirevole, sia nei suoi obiettivi che nella metodologia, che può finire per
diventare unideologia: il solo "giusto e vero" modo di morire. Questo
medicalizza e professionalizza un processo che dipende così tanto da una scelta personale
di attenzione e amicizia per il paziente, più che dalle capacità tecniche specifiche. I
Medici Generali, gli amici e i familiari possono essere più sensibili a questa dimensione
del curare di quanto lo siano certi specialisti in terapia palliativa. Se la terapia
palliativa diventa una ideologia, può scoraggiare e spiazzare gli amorevoli sforzi della
famiglia e degli amici, sommergendo il paziente "nel sistema", e frustrando gli
scopi e i propositi della palliazione stessa.
Gli oncologi hanno la responsabilità di
riconoscere quando i benefici di un trattamento chemioterapico o radiante hanno raggiunto
il loro limite così da non ritardare senza motivo il conforto e la terapia palliativa.
Proprio per questo sarebbe utile che gli oncologi e gli altri medici specialisti coinvolti
nella cura dei pazienti morenti e di quelli cronicamente sofferenti, passassero un po
del loro tempo durante il tirocinio in un hospice o in un servizio di terapia palliativa.
Gli oncologi sono orientati comprensibilmente ad una terapia aggressiva, e questo è
spesso di vantaggio ai pazienti, ma non sempre. I Medici Generali daltra parte sono
più inclini alla palliazione e muovono in questa direzione forse troppo presto. La loro
formazione professionale dovrebbe includere lacquisizione di una maggior
familiarità con i trattamenti aggiornati di terapia delle malattie neoplastiche.
Dal punto di vista del paziente è bene che sia gli
oncologi che i Medici Generali sappiano riconoscere i propri pregiudizi nel curare i
malati inguaribili. Essi devono comunicare meglio e lavorare in modo integrato. La terapia
palliativa è, se condotta in maniera adeguata, fondamentalmente una cura globale della
persona. Essa dovrebbe far parte del trattamento di tutti i pazienti, sia che stiano
ricevendo un trattamento anticancro aggressivo, sia che ricevano un trattamento in un
hospice. I Medici Generali, gli oncologi e gli specialisti sono obbligati a coordinarsi
nella cura dei loro pazienti perché lo richiede il benessere del paziente che stanno
curando.
La palliazione deve essere al servizio delle speciali
necessità che presenta il malato incurabile, senza fare esagerato affidamento su
programmi rigidi che troppo spesso vanno avanti per loro conto. Perfino uniniziativa
così meritoria come una palliazione globale del dolore e della sofferenza deve essere
praticata allinterno di un quadro ben stabilito di principi etici. La compassione,
come qualsiasi sentimento umano, può essere distorta e diventare così uno strumento di
potere professionale piuttosto che uno stimolo per favorire il benessere del paziente.
Traduzione di C.Blengini |